UNA VITA A MACCHIE

di Emma Trifilio

Il Signor Moretti era un uomo di abitudine.
Tutti i giorni seguiva la stessa identica routine. Si alzava dal letto alle 7.15 e andava in bagno per darsi una sistemata. Si sciacquava la faccia usando acqua rigorosamente tiepida, si pettinava i capelli con otto passate di pettine e si radeva la barba.
A quel punto usciva in balcone e osservava le persone che passavano per strada, avendo cura di trovare in ciascuno dei passanti almeno un difetto di cui potersi lamentare con la Signora Bianchi.
La Signora Bianchi era l’assistente che seguiva il Signor Moretti. Era inoltre una delle poche persone presenti alla casa di riposo che fosse disposta ad ascoltare tutte le sue numerose lamentele.
Il Signor Moretti non aveva sempre avuto un’indole così severa.
In gioventù aveva avuto un carattere mite e predisposto all’essere contento, ma nella sua tarda età non era riuscito a rimanere al passo con il mondo e la sua repentina evoluzione. Si era dunque d’un tratto trovato in una realtà che non gli apparteneva più, con la quale riusciva a interagire solo lamentandosi, fingendo disinteresse e disapprovazione.
Nella calda mattinata di Ottobre in cui inizia la nostra storia, il Signor Moretti aveva visto dal suo balcone ben tre donne di diverse età, tutte abbigliate in maniera del tutto inappropriata.
“La gente è diventata talmente tirchia che non vuole neanche più spendere i soldi necessari per comprare delle gonne di lunghezza decente. Se la mia povera madre potesse vedere come vanno in giro queste donne… Da che ho memoria, sino alla sua morte io non vidi mai le sue ginocchia. Al giorno d’oggi non vi è una donna che non abbia mai mostrato le ginocchia a un uomo.” disse brontolando mentre spalmava metodicamente la marmellata di visciole sul pane.
“Sicuro Signor Moretti,” rispose sorridendo pacatamente la Signora Bianchi “d’altronde con il caldo che è venuto a fare non si può certo pretendere che le donne vadano in giro bardate come una volta.”
“È questo dannato riscaldamento globale,” inveì l’uomo agitando pericolosamente la tazzina di caffè “non ci sono neanche più le mezze stagioni!”
L’infermiera annui placidamente, allungando all’anziano signore un fazzoletto per pulire la macchia di caffè che nella sua foga aveva inavvertitamente fatto cadere sulla camicia.

L’appagamento provato per aver avuto l’ultima parola fu abbastanza per stemperare l’imbarazzo di essersi macchiato in maniera così maldestra e, ritenendosi soddisfatto con la conversazione, l’uomo si alzò dal tavolo, e con lenti passi tremuli uscì in giardino per godere del tiepido sole autunnale.
Si incamminò per il sentiero pavimentato, contando i passi necessari per raggiungere la sua panchina.
La sua panchina non era propriamente sua; ma l’assiduità con cui egli difendeva il diritto di occupare quel piccolo angolo di paradiso, in cui il sole riscaldava la seduta in travertino filtrando attraverso le fronde di un glicine centenario, era tale che nessuno alla casa di riposo osava occupare quel posto.
Una volta giunto alla sua panchina si sedette lentamente, prestando attenzione a non irritare ulteriormente le sue ginocchia, posò il bastone sulla seduta accanto a sé e chiuse gli occhi.
Le macchie di luce danzavano sulla superficie chiusa delle sue palpebre, creando un mosaico di chiazze rosse all’interno del suo campo visivo.
La piacevole aria mattutina di metà Ottobre infuse in lui un leggero torpore e, prima che se ne potesse accorgere, cadde in un agitato dormiveglia.
Lentamente, le striature colorate all’interno del suo campo visivo iniziarono a muoversi e danzare quasi come dei pesci, creando dei motivi dalle tinte vivaci.
Affascinato, l’uomo allungò la mano verso una delle sfumature, fino ad affondarci le dita.
Con la rapidità di uno sbattere di ciglia, tutto il suo essere fu inondato di sensazioni che non provava da almeno sessantacinque anni. L’odore della salsedine che permeava il paesino costiero in cui era nato, il calore della mano di sua madre che gli accarezzava teneramente la guancia e il sapore della crostata di sua nonna appena sfornata.
In tutto l’esperienza non durò più di un paio di secondi, ma non appena tornò in sé, si rese conto di avere le gote inumidite.
Ancora più scosso di prima, si guardò intorno, tendando di capire dove fosse finito.
Perso com’era nei suoi pensieri, non si accorse di starsi dirigendo verso un’altra venatura colorata.
Il secondo contatto con la misteriosa sostanza fu ancora più intenso del primo. Avrebbe quasi potuto pensare di essere stato spedito indietro nel tempo a cinquant’anni prima, se non fosse stato per la vista offuscata e i suoni attutiti. Vedeva le vie della città come gli apparivano la prima volta che vi aveva messo piede; sua moglie, giovane e ridente che teneva in braccio un bambino più piccolo di quanto si ricordava
fosse mai stato loro figlio. Sentiva le prime parole di sua figlia e una vecchia canzone alla radio, una di quelle che ballava in salone con sua moglie dopo aver bevuto un po’ troppo vino.
Una volta che fu terminata questa seconda esperienza ed ebbe modo di osservare nuovamente i suoi dintorni, si rese conto che il paesaggio circondante era cambiato. Rispetto all’inizio del suo percorso, le macchie sembravano aver preso un aspetto più incombente e minaccioso.
Continuò a camminare finché non si trovò davanti a una terza chiazza, più grande e più densa delle precedenti. La sola vista di questo angosciante fenomeno lo riempì di un tale terrore che decise di voltarsi e provare a tornare sui suoi passi.
Ma, prima che si potesse voltare, si alzò un impetuoso vento che lo spinse direttamente dentro la macchia.
Per qualche crudele gioco del destino, questa terza visione era la più nitida e chiara di tutte.
L’anziano signore non potè che osservare atterrito mentre i momenti peggiori della sua vita si presentavano davanti ai suoi occhi. La diagnosi di sua moglie. I medici che porgevano le loro condoglianze e il funerale. I suoi figli, ormai cresciuti, a loro volta travolti dai doveri delle loro vite adulte, che sempre più spesso tralasciavano di chiamarlo e di andare a fargli visita, fino a quel fatidico compleanno.
Se lo ricordava come fosse ieri. I nipoti annoiati, costantemente attaccati ai cellulari e i figli che indossavano espressioni colpevoli. Avrebbe dovuto capirlo prima. Prima di aprire quella busta “regalo” che conteneva la sua definitiva condanna all’oblio. “Casa di riposo quercia ombrosa” “Un resort con tutti i servizi necessari e uno staff qualificato e cordiale”. Tutti fronzoli, scuse per alleviare il senso di colpa dei suoi figli.
“Basta per favore…” Sembrava non finire più “Perché mi mostri queste cose? Smettila!” I ricordi si confondevano in una cacofonia di disperazione, ruotandogli intorno come un tornado.
“Basta, basta… basta!” Le sue urla disperate furono finalmente ascoltate, e si svegliò bruscamente, scivolando dalla panchina.
“Signor Moretti!” la voce della Signora Bianchi lo riportò pienamente alla realtà “Cosa è successo? Si è fatto male?”
In quel momento, seduto per terra, circondato da foglie cadute e sassi appuntiti, l’uomo non poté far altro che scoppiare a piangere come un bambino.

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